Il non tanto nuovo governo israeliano

federico bosco
6 min readMay 19, 2020

Il presidente della repubblica israeliana Reuven Rivlin ha affidato formalmente a Benjamin Netanyahu l’incarico di formare un nuovo governo. Con la convalida della Corte Suprema la questione è chiusa, l’accordo di governo tra i due ex-rivali Bibi Netanyahu e Benny Gantz è cosa fatta: nonostante i processi a suo carico, mercoledì 13 maggio Netanyahu potrà tornare a fare il primo ministro per la quinta volta. Finisce così la più lunga crisi politica della storia di Israele, con Bibi l’immortale ancora al suo posto dopo 16 mesi di campagne elettorali, tre tornate elettorali e un governo in carica per gli affari correnti dall’autunno del 2018. Secondo il patto di coalizione Gantz diventerà primo ministro fra 18 mesi. Fino ad allora, sarà ministro della Difesa e avrà il potere di veto su gran parte delle questioni legislative e politiche.

La svolta avrà conseguenze cruciali sul futuro di Israele e su chi non ha avuto voce in capitolo durante tutta questa crisi: i palestinesi dei Territori occupati. Nell’accordo Netanyahu-Gantz infatti, è prevista l’annessione di interi blocchi della Cisgiordania, il controverso asso nella manica sfoggiato Bibi durante l’ultima campagna elettorale per conquistare il cuore dei coloni, normalmente orientati a votare i partiti nazional-religiosi a destra del Likud. Alla fine quindi è stato Gantz a cedere a Netanyahu, che a sua volta si è sottomesso alle idee dell’ala più radicale del suo schieramento politico.

Netanyahu che mostra il piano di annessione durante la campagna elettorale
Netanyahu mostra il piano di annessione della Valle del Giordano durante la campagna elettorale

Il piano di Netanyahu prevede l’annessione totale della Valle del Giordano, lasciando la città palestinese di Gerico sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il territorio è per lo più inospitale e poco abitato, ma ha un alto valore strategico perché confina direttamente con la Giordania. Annettendolo, Israele renderebbe impossibile per qualsiasi eventuale futuro stato palestinese l’accesso all’unico paese oltre a Israele con cui lo Stato di Palestina potrebbe confinare. Per uscire e rientrare i palestinesi dovrebbero servirsi di uno dei due corridoi di frontiera sotto il totale controllo israeliano.

Come andrebbe ridisegnata la mappa di Israele dopo l’annessione

Attualmente la Valle del Giordano è parte della cosiddetta Area C, territorio occupato dove già esistono colonie israeliane. Dal punto di vista pratico è uno spazio nella totale disponibilità israeliana. Non ci sono dati precisi e aggiornati sulla demografia locale, all’incirca si parla di 5.000 coloni ebrei e 60.000 palestinesi, ma di questi solo 10.000 vivono effettivamente nell’Area C da annettere a Israele, la maggior parte vive nella città di Gerico.

La Valle del Giordano è dalla Guerra dei Sei giorni del 1967 un territorio sotto il totale controllo israeliano

Dal punto di vista pratico quindi, per Israele sarebbe facile annettere questi territori senza fare grandi operazioni. Tuttavia, l’annessione è cosa ben diversa dallo status quo attuale. Una volta annessi, il territorio smetterebbe di essere soggetto all’amministrazione militare diventando parte integrante dello Stato di Israele al pari degli altri distretti. Inoltre, l’annessione sarebbe illegale dal punto di vista del diritto internazionale, un’altra violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fino a pochi anni fa era impossibile immaginare un’azione del genere, ma oggi la posizione di Israele è più forte che mai. Per quanto spregiudicata e criticata, la linea di Netanyahu si è rivelata vincente, almeno dal punto di vista suo e dei suoi sostenitori.

Oggi i rapporti di forza permettono a Israele di ignorare qualsiasi voce critica, i tempi della presidenza Obama sono lontani. Con il presidente Donald Trump e il suo vice Mike Pence alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono dalla sua parte come mai prima d’ora. Washington ha già riconosciuto l’annessione delle alture del Golan e trasferito l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, l’annessione di parti della Cisgiordania — e in particolare della Valle del Giordano — è addirittura prevista nel piano Peace to prosperity illustrato da Trump lo scorso gennaio.

Lo Stato di Israele (a sinistra) e di Palestina (a destra) secondo il piano di pace proposto da Trump

Anche se in teoria per ogni passo in avanti sarebbe previsto un negoziato e un accordo con i palestinesi, l’America sembra favorevole all’annessione unilaterale. David Friedman, l’ambasciatore USA a Gerusalemme, il 6 maggio ha affermato che l’amministrazione Trump è pronta a riconoscere in poche settimane l’allargamento della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano. Il segretario di stato Mike Pompeo sarò in Israele il 13 maggio per parlarne direttamente con Netanyahu e Gantz, subito dopo il giuramento del governo.

Come reagirà il resto del mondo
I grandi paesi europei sono nettamente contrari a qualsiasi azione unilaterale di Israele, così come l’Unione europea, ma al di là delle dichiarazioni formali non avranno né la voglia né l’interesse di contrastare le manovre israeliane. Si limiteranno a non riconoscere l’annessione della Valle del Giordano come non hanno mai riconosciuto quella delle Alture del Golan, e (forse) applicheranno in ordine sparso il boicottaggio di quanto prodotto in quei territori (dove non si produce quasi nulla), ma niente di più. Probabilmente Netanyahu riuscirà anche a portare dalla sua parte qualche paese dell’UE orientale come ha già fatto in passato, spaccando formalmente anche l’unanimità della posizione comunitaria, indebolendone ulteriormente il valore.

Gli Stati della Lega Araba hanno già storto il naso e condannato sia il piano di pace proposto da Trump che i progetti di annessione di Netanyahu, ma anch’essi non vogliono rovinare il rapporto informale sempre più sofisticato che hanno costruito con lo Stato ebraico in questi anni, una relazione molto particolare basata sugli interessi strategici comuni in chiave anti-iraniana.

Ancora meno interesserà a Russia, Cina, India e tutte le altre grandi e piccole potenze che con Israele hanno ottimi rapporti commerciali e politici, e tutta l’intenzione di continuare ad averli. Anche da loro verranno dure parole di condanna, in alcuni casi più formali e in altri più severe, ma niente di più.

La strada verso l’annessione quindi sembra spianata, a maggior ragione in un momento che vede tutto il mondo alle prese con la crisi sanitaria ed economica del coronavirus. La data da segnare sul calendario è il 1° luglio, Netanyahu punterà a chiudere la questione prima delle elezioni statunitensi previste a novembre.

La versione di Pleffer
Vale la pena citare l’opinione di Anshel Pleffer, editorialista di Haaretz e grande conoscitore della storia personale e politica di Netanyahu. Secondo lui non ci sarà nessuna annessione, perché Bibi non vuole che accada e ormai non ne ha più bisogno per vincere le elezioni, né per raccogliere l’elettorato. Secondo Pleffer. La priorità dell’eterno premier è impedire che si svolgano i processi a suo carico per corruzione. Giustamente Pleffer sottolinea che Netanyahu ha già ottenuto tutto quel che desiderava da Trump: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano, il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan. Il fatto però è che Pleffer sembra convinto che, siccome Netanyahu ha passato un’intera carriera politica a far sparire la questione palestinese dalle grandi questioni globali, l’ultima cosa che vuole è riaccendere l’interesse internazionale con un’annessione illegale.

Personalmente però non ne sarei così sicuro. Il fatto è che in Israele sono già state superate molte “linee rosse” senza conseguenze. Oggi come oggi una cosa un tempo impensabile come l’annessione unilaterale della Valle del Giordano farebbe notizia al massimo per una settimana. Nessuno potrebbe farci niente (a parte gli Stati Uniti, che però sono d’accordo) e nessuno avrà voglia di farci niente. Inoltre, Netanyahu dovrà presto affrontare l’ostilità della magistratura che dopo tanti anni è riuscita a portarlo in giudizio. Avere dalla sua parte un’opinione pubblica israeliana galvanizzata dall’annessione di territori proibiti lo renderebbe ancora più forte sul fronte interno: un leader che ha reso Israele più grande e più forte, un leader che godrebbe di un consenso quasi messianico, un leader molto difficile da condannare per qualche “piccolo” reato di corruzione tutto sommato perdonabile.

Un format comunicativo di conflitto tra leader amato dal popolo e magistratura pedante che in Italia conosciamo bene. Per sapere come andrà a finire questa storia non dovremo aspettare molto, nei prossimi mesi avremo la risposta a gran parte di queste domande

Articolo per il Centro Studi di Geopolitica — 18 maggio 2020

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