L’America ritorna alle porte dell’Artico

federico bosco
3 min readMay 6, 2020

Le forze armate degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno inviato tre cacciatorpedinieri (statunitensi) e una fregata (britannica) nel Mare di Barents. La missione di pattugliamento è stata notificata alle forze armate della Russia e formalmente non c’è niente di ostile, le navi si sono spinte fino alla porta dell’Artico russo solo per esercitare la capacità operative nelle difficili acque artiche. Tuttavia, non è certo un caso se le stesse navi che recentemente si erano esercitate in tecniche di guerra anti-sommergibile si siano spinte fin sulle porte della fortezza militare russa della penisola di Kola. Nonostante sia un membro della NATO, la Norvegia non ha partecipato alla missione. Oslo apprezza l’aumentato della presenza americana nella regione, ma in questo caso ha preferito non infastidire direttamente la Russia.

Per capire l’importanza di questa esercitazione è sufficiente ricordare che la U.S. Navy non entrava nel Mare di Barents dalla metà degli anni ’80 (in piena Guerra Fredda), quando il Mare del Nord era una delle linee di frontiera dall’altissimo valore strategico.

Con la fine della Guerra Fredda il mare Artico aveva perso centralità ed era finito ai margini dell’analisi geopolitica, ma lo scioglimento dei ghiacci causato dal cambiamento climatico ha reso le sue rotte più praticabili, al punto di rendere possibile immaginare una “via della seta ghiacciata” come parte delle nuove vie della seta progettate da Pechino.

La rotta artica ridurrebbe di un terzo la distanza delle spedizioni via mare tra Germania e Cina, ma attualmente il ghiaccio presente rende il passaggio non utilizzabile per la maggior parte delle tipologie di trasporto navale, con l’eccezione di alcuni carichi molto speciali come il gas naturale liquefatto (LNG) estratto dai russi nella regione.

Come abbiamo visto però, anche se realizzata la funzionalità della rotta russo-cinese sarebbe vincolato al controllo statunitense. Guardando la mappa in basso, è facile capire che Donald Trump non stava affatto scherzando quando l’estate scorsa chiese alla Danimarca di vendere agli Stati Uniti la Groenlandia, motivazioni che vanno ben oltre le risorse petrolifere nascoste nei giacchi dell’estremo nord del continente americano.

Con questa esercitazione l’America rivendica ufficialmente — nel comunicato è scritto chiaramente — il ruolo di garante della libera circolazione nel mare del Nord come in tutti i mari europei, così come in quelli del resto del mondo. Anche durante la pandemia del coronavirus (o forse, a maggior ragione proprio in questo momento).

Niente di nuovo, è il fondamento su cui si basa la globalizzazione così come la conosciamo oggi. Nonostante il 70% delle merci che attraversano i mari non sia destinato al Nord America, sono le forze armate degli Stati Uniti a garantire il transito navale in ogni stretto e canale del globo. Una condizione di supremazia a cui Washington non ha intenzione di rinunciare, nonostante il costo sociale immenso che questo rappresenta per la sua popolazione, sicuramente irrequieta come dimostrato dall’elezione di Trump ma tutt’altro che disponibile a rinunciare allo status di cittadini della potenza numero uno.

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